«Quando ti dicono che il prodotto è accessibile gratis, è perché il prodotto sei tu» diceva qualcuno. È piuttosto veritiero.

Come nativa digitale, io in realtà la mia culla online l’ho avuto ai tempi in cui andava di moda mIRC e ci radunavamo sui forum. Eravamo gruppi più contenuti e mirati, non raggiungevi l’universalità di un post sui social odierni. Paradossalmente, avevamo tutti un nickname e non un nome e un cognome, eppure ci tenevamo a osservare la netiquette e avere un comportamento consono ed educato con il prossimo.

È un po’ divertente e un po’ triste ripensarci, considerando che oggi ci si insulta con nome, cognome, foto e posto di lavoro tra le informazioni del profilo.

Insieme a mio fratello, il gigante Robertino, mettemmo in piedi quello che diventò il più grande forum italiano dedicato a Metal Gear Solid, per affiancare il nostro fan-site dell’epoca. Venne MSN Messenger, vennero i Netlog e i MySpace. Alla fine venne Facebook e portò a tutti gli effetti l’universalità, quella sensazione che se non sei su Facebook non esisti e sei irraggiungibile, come quando ti chiedevano «mi dai il tuo numero?» e tu rispondevi «non ho un cellulare», prendendoti dell’anacronistica e vetusta sfigata.

Meta si è messa a inseguire in un modello dove, con mia tristezza, si va sempre più di corsa e si legge sempre di meno.

Oggi, il principe dei social network ha visto molti cambiamenti rispetto al 2008 in cui ricordo il suo boom. Meta è diventato un colosso onnivoro che si occupa di metaversi (qualsiasi cosa siano), di realtà virtuale con la fu divisione Oculus – ma soprattutto le nuove generazioni guardano a social network che prevedono una forma di comunicazione diversa. Ecco che così Meta si è messo a inseguire, ad esempio sulle tracce del modello TikTok. Un modello dove, con mia tristezza, si va sempre più di corsa e si legge sempre di meno.

Ma non è nemmeno questo il punto di questo flusso di coscienza. Mi fa riflettere che, con questo spostamento di nuove generazioni verso altre mezzi, Facebook mantenga comunque numeri monstre nel suo utilizzo – pur risultando ancora oggi un po’ di tutto e un po’ di niente. Ci puoi postare un pensiero, delle foto, dei video, dei reel, delle Storie, ci puoi seguire le aziende, qualcuno è abbastanza petulante da farci microblogging. È, in pratica, una piattaforma dove si può fare tutto in modo average, non specializzata nel farti fare nulla, anche se una cosa le viene benino: farti scrivere dei post dove rifletti su qualcosa. Senza diventare scema a contare i caratteri, che non è poco.

Facebook è una piattaforma dove si può fare tutto in modo average, non specializzata nel farti fare nulla: puoi postarci un pensiero, delle foto, dei video, dei reel, delle Storie, ci puoi seguire le aziende, se sei petulante farci microblogging.

Certo, questo come da manuale nella stragrande maggioranza dei casi significa che si vanno a condividere pensieri in larga parte demoralizzanti. Provate ad aprire il vostro feed su Facebook e contate, tra i post dei vostri contatti, quanti staranno parlando di qualcosa in termini positivi e quanti staranno parlando di qualcosa in termini negativi – un episodio personale, una lamentela su un prodotto, una provocazione verso qualcosa o qualcuno. Si tratta di un problema delle persone, ovviamente, non della piattaforma di per sé, come quegli sperimentatori sociali che si mettevano in mezzo a una strada col cartello “non reagisco, fammi quello che vuoi” e la prima idea che veniva ai passanti era fare loro le cose peggiori possibili, mica abbracciarli.

Siamo (anche) questo, come umanità – a quanto pare – ed è una cosa che la distanza e la mancanza di empatia del contatto social indubbiamente amplifica.

Facebook è il più noto tra i social network, anche se il pubblico giovane si è spostato su altre piattaforme, come TikTok
Facebook è il più noto tra i social, anche se molti utenti più giovani preferiscono il modello TikTok

Posto, quindi, che in molti casi le piattaforme vengono usate più come un muro di sfogo che altro, in questo periodo sto seguendo con curioso interesse i tumulti dei social network – che suggeriscono che il prodotto, sì, è ancora l’utente finale. Ma in modo diverso.

Partiamo dal caso di Twitter.

Twitter: da una piattaforma che aiuta il giornalismo a…?

Non starò a raccontare qui gli ultimi accadimenti legati a Twitter, pensano siano ben noti a tutti. La piattaforma, qualche mese fa, è passata a Elon Musk che, fin dal giorno zero, ha dichiarato guerra alla verifica dei profili (a volte incomprensibile, va detto, perché conosco giornalisti ben noti che non sono mai stati verificati e nessuno ha capito il perché) ritenendo che questa creasse uno status elitario – non una verifica dell’identità – ed ergendola quindi a base della sua strategia di monetizzazione.

Risultato: abbiamo in giro per il web meme con Mario che fa il dito medio su un profilo verificato, a pagamento, che si spacciava per Nintendo. Per correre ai ripari, Twitter Blue (questo il nome dell’abbonamento che include la spunta blu, ma nessuna verifica per averla) venne temporaneamente sospeso e rilanciato con l’idea di verificare in modo diverso individui e persone.

In teoria dovrebbe essere Twitter a sentirsi avvantaggiato a essere usato da grandi player ufficiali di svariati mercati, non l’opposto.

Oggi l’abbonamento è disponibile anche in Italia: parliamo di 8€ al mese per gli utenti, ma di circa 1.000€ al mese per le aziende – con questo ultimo fatto che fa sorridere di suo, perché in teoria è la piattaforma che dovrebbe sentirsi avvantaggiata a essere usata da grandi player ufficiali di svariati mercati e non l’opposto.

Inoltre, in queste ore è stato confermato che dal 1 aprile saranno rimosse via via le verifiche che erano state assegnate prima dell’avvento di Musk – quelle che, insomma, vi permettevano di sapere che i tweet di Hideo Kojima erano davvero di Hideo Kojima. Come quelli di Phil Spencer, di Jason Schreier, di qualsiasi sviluppatore o membro dell’industria (perdonatemi se tengo gli esempi correlati al mio ambiente lavorativo) era effettivamente chi diceva di essere perché, al di là del fattore non oggettivo della notabilità, aveva fornito dei documenti per confermare di essere chi asseriva.

Le recenti decisioni di Twitter stanno aggiungendo confusione a confusione

Twitter sta, di fatto, rimuovendo il segno di verifica a chi ha fornito una verifica della sua identità. Questo significa che, dal 1 aprile in poi, diventerà molto più complicato usare questa piattaforma per fare giornalismo, perché avremo giornalisti e sviluppatori di cui è impossibile verificare l’identità che non hanno nessuna spunta – e personalità varie che avranno una spunta che metterà in evidenza quello che dicono, qualsiasi cosa sia (vera o falsa, sì).

È un paradosso, perché di fatto hai un segno di verifica che non richiede verifiche. E dubito che il fatto che non si possa modificare il proprio nome dopo aver fatto l’abbonamento a Blue possa aiutare: non essendomi richiesto un documento, posso sempre asserire di chiamarmi anch’io Phil Spencer, per assurdo.

È un paradosso, perché di fatto su Twitter hai un segno di verifica che non richiede alcuna verifica.

Oltre al danno che questo arreca a chi con questa piattaforma ci lavora per il giornalismo e i contatti diretti, mi fa riflettere anche che un modello di monetizzazione piuttosto grottesco – ho seri dubbi che possa essere un buon piano di rientro a fronte della quarantina di miliardi di dollari pagati per portare il free speech su Twitter, ma sarò io che sono dubbiosa di natura – stia di fatto vanificando gli sforzi profusi da persone che avevano scelto proprio Twitter come canale per fare personal branding. Diminuendo la sua appetibilità. E in un certo senso quella del suo abbonamento: perché dovrei pagare per dei vantaggi in una piattaforma dove lavorare mi è diventato molto più difficile, dove fino a ieri potevo interagire con uno sviluppatore ed entrambi eravamo sicuri che l’altro fosse chi diceva e oggi rischio solo di perdere tempo?

Questo ci porta a un risultato che fa riflettere: se hai speso del tempo per fare personal branding e networking su Twitter, negli anni, lo hai praticamente buttato, a fronte di un modello di monetizzazione a metà tra il grottesco e il disperato. Aiuterebbe, certo, se Twitter Blue includesse la necessità di verificare con un documento la propria identità, perché impedirebbe alla schiera di anonimi di fare i danni che già abbiamo visto.

A quel punto, con lo sbarramento del documento quantomeno si arginerebbe il problema di bot verificati per avere visibilità e di scambi di persona degni della commedia dell’equivoco. Secondo TechCrunch è una feature in valutazione (e dal mio punto di vista sarebbe game changer per il summenzionato problema di autenticità), ma mi domando se questo – considerando che molti dei Musk-enthusiast che vedo sulla piattaforma sono anonimi con nickname assurdi e senza una foto personale – non possa restringere ulteriormente il numero di interessati all’abbonamento, già non straordinario. Non di certo abbastanza da rientrare dell’investimento.

Può essere un’ancora, però. Quantomeno per impedire che, davvero, Twitter sia tra le piattaforme da depennare per chi lo usava per lavoro – e vuole interagire con personalità specifiche e confrontarsi con le loro opinioni, anche per report giornalistici.

Quindi, da questo punto di vista, siamo in sospeso, ma con una piattaforma che si incammina in direzione della confusione più totale.

Di Meta, SIAE e un altro po’ di confusione

E questo ci riporta a Facebook e a Meta. Da qualche giorno, la piattaforma sta a sua volta testando un sistema di verifica (Meta Verified) che non è più basato sulla notorietà o meno, ma che è comunque basato sulla verifica. In soldoni: non posso verificarmi come Hideo Kojima dicendo che anche io mi chiamo Hideo Kojima anche se non sono quell‘Hideo Kojima e creare comodamente confusione, se non ho un vero documento di identità che dice che mi chiamo, davvero, anche io Hideo Kojima.

Questo ovviamente fa una grande differenza per capire qualcosa lato burloni. E penso sinceramente che ci sia un’altra cosa positiva: non succederà niente a chi è già verificato per via della sua notorietà, a cui non sarà richiesto di pagare l’abbonamento. In pratica, significa che una persona verificata ha un abbonamento attivo e/o è considerata notoria, ma in ogni caso è chi dice di essere. E considerando come vanno le cose su Twitter, per ora, è almeno qualcosa.

In sintesi, con queste basi su Meta Verified non potrei verificarmi come un omonimo di Hideo Kojima per il mero gusto di creare confusione, a meno di non avere un documento di identità che confermi che mi chiamo davvero così.

Apro e chiudo una parentesi sul fatto che, se questo dovesse servire ad arginare le decine di centinaia di profili bot e fake su Facebook e Instagram che taggano, postano e condividono contenuti non solo mendaci, ma volutamente dannosi, allora ne sarei ben contenta. Temo però che non gli toglieranno nessuno reach perché l’abbonamento, secondo i sondaggi, sarà di interesse soprattutto per content creator e giornalisti – ma, anche qui, magari sono solo io che sono pessimista e sarà più diffuso di quanto mi aspetti.

Se, quindi, la questione Meta Verified per ora è in divenire, ma quantomeno si basa sulla verifica dell’identità documenti alla mano, la grossa questione che fa riflettere lato Meta, in questi giorni, è soprattutto quella della SIAE.

Lavorare con la comunicazione digitale, una diapositiva

Sappiamo che il gigante dei social non ha trovato l’accordo per l’inclusione della musica della SIAE sulla sua piattaforma. Risultato: è stata tutta rimossa. E non solo quella ma, a quanto pare, anche quella di artisti stranieri che evidentemente sul nostro mercato sono gestiti dalla SIAE. Per capirci, non si tratta di non trovare più le canzoni di Laura Pausini per i propri contenuti, ma sono sparite anche quelle da mercati totalmente diversi, dai Metallica ai Nightwish, passando per gli Auri, Low Roar e gli In Flames, per citare nomi a me cari.

Risultato: ci sono decine, decine e decine di persone – per cui i social network non sono uno sfizio dove mettere le foto dei gattini, ma un lavoro con precisi piani di comunicazione – che, utilizzando la feature della musica per i loro contenuti, ora hanno contenuti monchi e muti. Peggio ancora, se erano contenuti dove la musica faceva da punteggiatura e c’era il parlato, perché è stato tagliato anche quello e ora sono di fatto inservibili.

Se non posso più utilizzare una canzone dei Coma_Cose per creare un contenuto, secondo voi è più un danno per Meta o per i Coma_Cose?

Se siete tra quelli che non hanno capito in che modo la comunicazione e i social network siano un lavoro e ridono all’idea che perdere contenuti su cui hai lavorato sia un problema – anche se sono piuttosto sicura che, in tal caso, non siate di certo il tipo di persona che legge questa riflessione fino a qui – ne approfitto per segnalarvi che siete su un sito dove vi troverete molto a disagio, qui.

Tornando all’argomento, comunque, il danno non è solo al creator che si trova il contenuto muto e inservibile, ma anche all’artista. Perché non è tanto una questione di quanto incassa in termini di pura pecunia l’artista, ma di quanto può portare a casa in fattore di scoperta e visibilità. Se un creator non può più usare una canzone dei Coma_Cose di sottofondo al suo Reel, ne userà serenamente una di Leona Lewis, che sulla piattaforma si trova ancora. È un danno per Meta o per i Coma_Cose, secondo voi?

Molti Reel su Instagram che usavano musica di sottofondo sono ora muti e inutili

Nell’epoca dei social la scoperta tramite altre persone funziona ancora benissimo e il passaparola virtuale – altrimenti non ci sarebbero gli “influencer” – è una costante. Escludere da questo passaparola gli artisti italiani e molti stranieri sicuramente non toglie il sonno a Meta. È solo l’ennesimo schiaffo in faccia ai creativi – sia quelli della comunicazione online che della musica – da parte di un Paese indietro di almeno settant’anni in tutto quello che concerne la comunicazione digitale, quello che pensa che per gestire una testata di videogiochi stai tutto il tempo a videogiocare e per impostare la comunicazione social di un’azienda basta chiedere a tuo cugino bravo col PC di farti due post.

Ma, al di là della miopia nostrana e del geriatrico amore italiano per fare le cose come quando ero giovane io, rimane di fondo il fatto che anche chi ha speso tempo a fare networking e personal branding su queste piattaforme si trova con contenuti castrati perché una manciata di persone ha preso delle decisioni… leggermente impopolari.

È solo l’ennesimo schiaffo in faccia da parte di un Paese indietro di almeno settant’anni in tutto quello che concerne la comunicazione digitale – quello che pensa che per gestire una testata di videogiochi stai tutto il tempo a videogiocare e per impostare la comunicazione social di un’azienda basta chiedere a tuo cugino bravo col PC di farti due post.

E quindi il prodotto siamo ancora noi, ma in modo diverso. Perché, al di là dei dati che fornisci con il tuo accesso gratis a una piattaforma, ora devi accettare anche di essere in balia delle decisioni schizofreniche. E se non sei su quelle piattaforme per passatempo e per vedere le foto del cagnolino di zia, ma per costruire un’immagine e un business, la cosa è spiazzante.

Di recente ho trovato interessante leggere in un libro di Austin Kleon un incoraggiamento ad aprirsi un proprio spazio online per parlare. Uno come questo, per capirci. E non sorprende vedere diversi piccoli angolini del web dove spuntano delle newsletter sui temi più disparati (vi raccomando di seguire quella di Lorenzo Fantoni, che trovo molto interessante e che peraltro qualche giorno fa ha parlato del tema Meta vs SIAE).

Se costruisci un business su queste grandi piattaforme (io ci metterei anche Twitch, che per me non ha la più pallida idea di cosa vuole fare da grande, ma è un discorso per un altro giorno) e queste grandi piattaforme hanno sparate deliranti – come deliranti sono, francamente, quelle di Twitter o gli stracci volati con la questione SIAE su Meta – cosa ti rimane in mano? In un mondo, quello dei mestieri della comunicazione digitale, dove per molti la volatilità è già fortissima, peraltro.

Quindi sì, il prodotto sei ancora tu. Ma queste piattaforme dovrebbero ogni tanto riflettere anche su come stanno vendendo il loro prodotto a chi dà un senso al fare login su base quotidiana su social spesso pieni di frustrazioni, insulti e fake news lapalissiane.

Author

Dal 2005 lavoro nell'informazione videoludica, dal 2012 su SpazioGames.it, di cui dal 2020 coordino tutte le attività editoriali come caporedattrice. Ho un debole per i libri, le belle storie e insospettabili cose da smanettoni. Nel tempo libero, scrivo romanzi per insegnarmi qualcosa.