Stavo provando a rimettere in ordine. Dopotutto, a modo mio avevo sempre avuto una ossessione per l’ordine, che mal si scontrava con quel contesto: non c’è niente da riordinare. Come riordini quando le cose sono fuori dal tuo controllo?
Alla fine, capii che quello che andava riordinato non era quello che avevo intorno, ma quello che sentivo. Quello che avevo dentro. Allora mi misi davanti a una pagina bianca e tentai di scrivere.
Erano passati sei anni abbondanti dall’ultimo romanzo originale che avevo scritto e che era stato pubblicato. Nel mezzo, c’erano stati dei romanzi-tributo, che da scrivere, almeno per me, erano molto più facili: c’era la base dei giochi a cui facevano riferimento, a fare da scheletro. Scrivere un libro completamente originale, invece, è un’altra cosa.
Il contesto, il tono, i tempi, lo stile, i protagonisti: è tutto completamente tuo. E quello che ti viene fuori dipende da chi sei in quel momento. A me, alla fine del 2018, è venuto fuori Corpo Estraneo. Una storia che impasta un flebile equilibrio di vita e morte a un concetto semplice ed eponimo: il sentirsi fuori posto. Il posto giusto, se non è questo, allora qual è? Bella domanda. E il libro, in realtà, parte tutto da qua.

In questi giorni nel tempo libero l’ho riletto integralmente e – al di là della straordinaria eccezione di volergli ancora bene, mentre puntualmente con gli anni prendo le distanze da tutte le cose che scrivo perché vorrei cambiarle e migliorarle – mi ha lasciato dentro un grande senso di vuoto e di dolcezza.
Quando ero una ragazzina, mi innamorai dello stile di scrittura di Alice Sebold. Non è un caso che Corpo Estraneo si apra con una sua citazione («gli assassini non sono mostri: sono esseri umani. È questa la cosa più spaventosa»). Avevo quindici anni e tutt’oggi, a trentatré, penso sia la scrittrice che più ha influenzato quello che faccio e il mio modo di raccontare le storie, di metterle insieme.
Mi colpì, allora, quando tempo fa incappai in una sua intervista in cui esprimeva perfettamente quello che rappresenta la scrittura.
Al salone del libro di Torino, la scrittrice dichiarò a Il Libraio:
“[La scrittura è] un modo per esplorare le mie ossessioni. Esplorando si scopre. Se non sono curiosa non sono motivata a scrivere. Non so come faccia a scrivere chi fin dall’inizio sa già tutto della storia: io mi annoierei”.
Alice Sebold
La scrittura è un modo per esplorare le ossessioni. Per far uscire in qualche modo i fantasmi. Quando non capisco cosa mi succede, cosa provo e cosa invece vorrei provare, mi metto davanti a un foglio bianco e vedo che cosa esce.
Quello che viene fuori, di solito, è qualcosa che avevo bisogno di dirmi. La storia inizia a camminare da sola per parlarmi.
Quando ero più giovane, era più manifesto: c’erano personaggi che avevano spiccatamente un riferimento nitido a questa o quella persona, questo o quell’evento. In Corpo Estraneo è tutto molto più naturale. Nei dialoghi, nelle battute, perfino nei numeri: è un sentiero di briciole di pane lasciate a me stessa. Ricordati cosa volevi dirti mentre stavi scrivendo.
Quando non capisco cosa mi succede, cosa provo e cosa invece vorrei provare, mi metto davanti a un foglio bianco e vedo cosa esce.
È stato sorprendentemente bello, al contrario delle aspettative, scoprire da adulta che la scrittura creativa per lavoro – quella con i contratti e le scadenze, come in passato mi è capitato di farla – non sarebbe mai stata la mia vocazione o quello di cui avevo bisogno. Scrivere è un’esperienza di auto-analisi intimista e lenta.
Non è solo un di cosa vuoi parlare in questa storia?, ma un di cosa vuoi parlarti in questa storia?. Detta così, sembra un’attività individualista ed egoista. A suo modo lo è.
Tempo addietro, una persona qualificata per farlo mi disse che l’amore per lo scrivere fosse assolutamente coerente con la mia persona: sei abituata a tenere le cose analiticamente sotto controllo e la scrittura è una forma espressiva in cui hai il controllo di cosa succede a chi e quando.
Penso ancora che sia vero. Oltretutto, se racconti una storia che ti fa tirare fuori una parte di te, senza che le altre persone nemmeno sappiano qual è, nelle pagine si sente. Per te e per chi quelle pagine finirà a leggerle. È un win-win.
È il senso di vuoto che ho provato oggi: per la fine di un viaggio con persone che mi sembrava di conoscere e di vedere – le conosco e le vedo per forza, c’è un pezzo della mia vita in ciascuna di loro, in ogni singolo pezzetto. Ed è quello anche il senso di dolcezza: scrivere è casa. È un modo per andare d’accordo con me stessa e per parlarmi, soprattutto nelle cose che non avrei mai l’audacia di dirmi in modo più diretto.
Non so come faccia a vivere chi non scrive. Non ho scritto per tanto – troppo tempo – tra Unforgiven e Corpo Estraneo, perché non ero più in grado di fermarmi a farlo. Perché forse non volevo guardarmi troppo dentro. Pensavo di non averne più bisogno, forse, e per un milione di motivi non mi sentivo bene se lo facevo. A volte non ne avevo nemmeno l’opportunità.
Ma come fai a non fermarti a parlare con te stessa? Se non lo fai, con te ci parlano solo gli altri. Ma loro di te sanno solo quello che lasci vedere – e quella è una scrittura di tutt’altro tipo. I miei libri e le mie storie, di me, sanno molto, molto di più. Delle mie ossessioni, direbbe Alice Sebold. Soprattutto delle insicurezze. Volevo solo prendermi a schiaffi, in ogni cosa che ho scritto, con in fondo il sogno e l’ambizione di essere all’altezza dei personaggi in cui mi sminuzzo e mi spargo.
Sono felice di averti scritto, Corpo Estraneo. Mi hai insegnato come nuotare in un milione di tempeste diverse che nemmeno immagini. È stato toccante averti riletto e avrai sempre un posto speciale per me. Il bello nasce dal brutto.
E, con la scrittura e soprattutto con te, quanto è vero.
«Passerà. Me la caverò».